Archive for giugno 23rd, 2012


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Fu proprio a quel contatto che la sua inquietudine si trasformò in apprensione, prima di mutarsi in angoscia.
Faceva molto caldo; un caldo opprimente ed implacabile: causa di molti malori.
La ragazza ebbe l’impulso di fuggire, ma si trattenne, soprattutto per riguardo verso la sua compagna, che seguì fino alla fontana di Zam-Zam.
Qui, la sua angoscia precipitò nel terrore; un terrore incontrollabile che la costrinse a staccarsi dai compagni e dirigersi, in una corsa sfrenata, verso i ponticelli di Safa e Marwal, bisbigliando frasi sconnesse:
“Signore, Signore. – diceva – Salva la vita di Ismaele… figlio di Agar e figlio di Abramo. Abbi pietà di Agar… Agar… Agar..”
Portava ancora nelle orecchie la voce di Sara, la prima moglie di Abramo, gelosa di lei, da quando aveva partorito il suo figliolo… il piccolo Ismaele.
Sara era sterile e la Legge le consentiva di diventare madre per mezzo suo, ma poi, anche Sara era diventata madre… madre di Isacco. Aveva ancora negli occhi la visione della sposa si Abramo offesa perché Ismaele si era preso gioco del figlio di lei: Isacco.
“Scaccia questa donna. – aveva detto ad Abramo – E scaccia anche suo figlio. Io non voglio che sia erede con mio figlio Isacco.”
Era stata scacciata, col figlio Ismaele, ed aveva lasciato la tribù assieme ad una fedele ancella.
Con del pane ed un otre d’acqua, che Abramo aveva fatto mettere in una bisaccia, avevano affrontato il deserto; l’acqua, però, era venuta presto a mancare nell’otre.
Lei avrebbe voluto raggiungere il Nilo, il fiume lontano presso le cui riva era nata; avrebbe voluto tornare nella sua terra, ma non conosceva la strada e il deserto era grande, terribile e soprattutto implacabile con la gente sprovveduta.
La sete aveva cominciato a minare la loro resistenza fisica ed a confondere le idee, che si agitavano scomposte dietro la fronte come calabroni nei loro nidi.
Un pensiero, però, più degli altri, l’atterriva: quello di veder morire la propria creatura.
Aveva cominciato a pregare tutti gli Dei, quelli lasciati nella terra d’Egitto e quello incontrato nella terra di Abramo:
“Abbiate pietà… – pregava – Abbiate pietà del figlio innocente di Agar.”
Aveva visto un arboscello; null’altra vegetazione poteva crescere in quel deserto pietroso.
Sotto quell’ombra avevano cercato un momentaneo riparo, prima di tornare a vagare alla ricerca di acqua. Le vesti erano lacere, i piedi tormentati, il volto arso dal sole e la stanchezza era in agguato e aveva finito per rubare le loro ultime forze.
“Pietà per mio figlio Ismaele… pietà per mio figlio… un sorso d’acqua.” continuava ad invocare, quand’ecco una voce piovere dal cielo:
“Agar, non temere… Dio ha ascoltato le tue preghiere.”
Si era fermata ed aveva finalmente scorto la presenza di un pozzo che prima, accecata dalla disperazione non aveva visto. Di quella s’era dissetata ed aveva dissetato suo figlio e l’ancella.

Esausta per la corsa, il respiro affannoso e lo sguardo perso nell’infinito, così, più tardi, Jasmine ed Ibrahim ritrovarono Piera.
“Piera, che cosa è successo?” chiese Jasmine con accento di stupore e un po’ di preoccupazione.
“Ismaele…la mia creatura…” rispose la ragazza sollevando sull’amica lo sguardo smarrito.
“Signorina Piera, cosa sta dicendo?” anche Ibrahim la guardava stupito
“Ora che Ismaele non morirà di sete, – Piera riprese a balbettare – Agar ha raggiunto la serenità.”
“Chi è questa Agar?”
“Sono io, Agar. Sara mi ha scacciata, ma il Dio di Abramo ha ascoltato le mie preghiere.”
“Ma che stranezze sta dicendo, la signorina Piera? – scuoteva il capo Ibrahim.- Sembra confusa… il sole… Il sole, qui, non è alleato dell’uomo.” sospirò.
“Già! – assentì Jasmine – Non è abituata a questa calura.”
“Portiamola via di qua. Che la Misericordia di Allah la sostenga.”
“E’ convinta di essere un’altra persona… una certa Agar…”
“Agar? – scosse il capo Ibrahim – Non sarà la Agar della Bibbia, la madre di Ismaele, il Patriarca?”
“Stava proprio parlando di suo figlio Ismaele… – convenne Jasmine, poi suggerì – Portiamola fuori del Tempio. In ospedale ci diranno che cosa può esserle accaduto.”
La condussero ad un posto di soccorso, poi in ospedale, dove la ragazza fu trattenuta per più di una settimana, prima di essere rimpatriata.

Sono passati quasi quattro mesi, ma Piera dice ancora di chiamarsi Agar e fa rivelazioni su posti e luoghi che conosce perfettamente senza esserci mai stata.

Nota. Chi volesse approfondire la vera storia di Agar, controversa figura biblica che, ponendosi in una posizione critica rispetto alle cons

IL FASCINO DEL MISTERO: Alla fine del Viaggio

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ALLA FINE DEL VIAGGIO

Erano partiti da Bir Fadhit cinque settimane prima. A Bir erano giunti dopo un volo di sette ore messo a disposizione dall’agenzia di viaggio. Ormai erano prossimi alla meta.
Il cammello su cui Piera e la sua giovane compagna di viaggio, Jasmine, ciondolavano, stanche della fatica, affondava i garretti nella sabbia della Haramam, il territorio sacro della Mecca.
Piera aveva simpatizzato con Jasmine fin dal momento in cui erano state presentate, nell’ufficio dell’agenzia di viaggio araba che, insieme a quella torinese, aveva organizzato quel viaggio e il relativo soggiorno in Arabia.
Le due ragazze si somigliava perfino un po’ e svolgevano un lavoro molto simile: Piera per una agenzia di assicurazione e Jasmine, per un’agenzia turistica.
Quel viaggio, Piera l’aveva sempre desiderato. Nutriva una grande passione per tutto ciò che aveva sapore arabo e conosceva piuttosto bene gli usi, i costumi e le tradizioni di quel popolo. Sapeva, ad esempio, che ai non musulmani era vietato l’accesso alla Kahab, il Sacro Cubo della Mecca e che senza quella opportunità, non avrebbe potuto mai farlo. Per questo a Bir Fadhit l’avevano affidata ad una hostess: Jasmine, per l’appunto.

Il viaggio era stato lungo e sfibrante, ma infine era giunto al termine.
La pista che Abud, il capo-carovana, un giovane arabo appartenente ad una tribù dell’interno, aveva scelto per i suoi ospiti, era tra le più battute del Paese e il percorso era confortato dalla presenza di numerosi pozzi che un tempo neanche esistevano.
In quelle settimane la carovana aveva macinato chilometri su chilometri. Là dove era stato possibile, l’uso della jeep aveva accorciato il percorso, ma alcuni tratti era stato possibile percorrerli solo a dorso di cammello.
Sotto gli occhi della ragazza il panorama era in continua trasformazione: case bianche unite da perimetri di mura ininterrotte, case fortificate come piccole fortezze, costruzioni rupestri e tante tende: bianche, grigie, a righe.
Avevano attraversato vasti deserti percorsi da oleodotti e disseminati di impianti di trivellazione e raffinazione del petrolio. Avevano sostato in oasi lussureggianti e superato brevi monti.
Piera, una vacanza così, non l’avrebbe mai dimenticata.

La cosa più considerevole, però, era stata la vista del Rub-al- Khaly, il deserto più deserto del mondo.
I nomadi, che in quel mondo terribile ed affascinante insieme, riescono a vivere, lo chiamano anche Ar-Rimal: Le Sabbie, poiché non esiste null’altro che sabbia, sabbia ed ancora sabbia.
No… in realtà non è proprio esatto: in tanta desolazione si possono incontrare creature sorprendentemente vive, come rettili, insetti, lucertole, a testimonianza della lotta per la vita e della sua vittoria sulla morte.
L’occhio vigile di Abud, il capo-carovana, aveva scorto anche tracce degli ultimi predoni del deserto: ultimo palpito di un antico sistema di vita, cosicché, macchine fotografiche, registratori, computer e provviste alimentari, furono immediatamente messi sotto stretta sorveglianza.

Nonostante il flagello della febbre delle sabbie che l’aveva colpita per due giorni o tre, l’entusiasmo della ragazza era altissimo.
Le notti, trascorse a ridosso di qualche duna a semicerchio, erano meravigliose e terse e tingevano il cielo di un azzurro intenso, sconosciuto sotto altre latitudini.
Le albe erano stupende; si avvicinavano prima ancora che la luna fosse scomparsa ed abbracciavano le tende ancora sommerse dal blu notturno. Mandavano giù dal cielo un chiarore di una brillantezza accecante, in un’opalescenza sfumata di mille colori, prima di sollevare la linea che separa il cielo dalla sabbia.
“Guarda. – le diceva tutte le mattine Jasmine – Ibrahim è già sveglio.”
Ibrahim era il secondo di Abud.

Si erano lasciati alle spalle Ar-Rimal, un angolo del nostro mondo che pare appartenere ad un altro pianeta, ed erano arrivati alla Città Santa della Mecca.
La vista delle prime case accese nella ragazza una strana, incontenibile inquietudine.

Era con Jasmine ed Ibrahin, poiché alla Città Santa una donna dev’essere sempre accompagnata da un uomo e stavano attraversando a piedi scalzi il sentiero di marmo che conduce alla Kaaba,.
Piera si guardò intorno; guardò Jasmine: superbia, vanità, orgoglio, parevano cancellati sull’immensa marea di visi che la circondava. Anche il volto dell’amica appariva sereno e in pace.
“Vorrei tanto un po’ di pace anche per me…” pensò con un filo di voce
Guardò il drappo di seta nera che ricopriva il cubo di pietra, lesse le parole ricamate in oro:
“La itaha illa Allah wa Muhammad rasul Allah.”
(Non vi è altro Dio se non Allah e Maometto è il suo Inviato)
Guardò ancora Jasmine.
Avevano osservato tutti i doveri del pellegrino.
Infagottate nell’ ihram, il sudario bianco, avevano girato intorno al massiccio Cubo Sacro per sette volte ed in senso contrario; Piera era riuscita perfino a toccare la pietra appar