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(seguito)
Infreddolito e triste, nell’attesa del sonno che non arrivava, Djoser pensava alla culla scurita dal tempo ma ancora attaccata al soffitto di casa. Le sue mani cercarono il filatterio legato al collo, un astuccio di canne contenente iscrizioni incise su un frammento di papiro; formule per propiziarsi il sonno. Glielo aveva messo al collo sua madre.

Improvvisamente avvertì la sensazione di non essere più solo e che la luce della Luna lo scaldasse quasi più delle fiamme del bivacco. Aprì gli occhi e balzò a sedere: sdraiato di fronte a lui dall’altra parte del fuoco, c’era uno sciacallo.
Superato il primo moto di timore, Djoser restò a guardarlo. Capì subito che non si trattava di uno sciacallo comune. Avvolta dal chiarore della Luna e di quello delle fiamme del bivacco, la sagoma dello sciacallo si stagliava nitida contro il cielo blu intenso della notte. Nero come la pece, era assai più grosso di uno sciacallo. Più grosso perfino di un lupo. Collo possente, muscoli poderosi sotto un manto di pelo raso, lo sciacallo si sollevò sulle zampe anteriori e lo fissò dritto negli occhi.
Un brivido attraversò la schiena del ragazzo, incapace di sottrarsi al richiamo di quello sguardo obliquo e verde. Lo vide tendere verso di lui il capo dal muso allungato ed aguzzo, spalancare le fauci e mettere bene in mostra le potenti mandibole e le zanne appuntite. Ma non era un atto di minaccia, bensì la posa che lo sciacallo assume quando ulula alla luna. L’ululato tipico, dicevano al cantiere, che lo sciacallo lancia nei periodi che precedono la pioggia: fenomeno assai raro nel deserto.
Djoser comprese che qualcosa di prodigioso stava per

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