Valchiria! E’ un termine che evoca oggi, soprattutto nell’immaginario maschile, la figura di una bellissima ragazza di origine nordica.
Le Valchirie appartengono proprio alla leggenda ed alla mitologia nordica; della Scandinavia, per la precisione. Ed erano davvero bellissime: corpi statuari e lunghi capelli dorati.
Bellissime, vergini e guerriere.
Le Valchirie erano inviate da Odino, re degli Dei, nei luoghi dove infuriava la battaglia, ad accendere i combattimenti e scegliere i guerrieri destinati a morte gloriosa: gli Einherii.
Dai campi di battaglia, le Vergini-guerriere, dalle corazze di cuoio e gli elmi piumati, guidavano gli spiriti dei valorosi caduti in battaglia fino al Walhalla, dimora di Odino, in Asgard.
Il termine Walkyrie, infatti, trae la sua origine da wal, che significa battaglia e kyran, cioè, scegliere.
Terminata la battaglia, Le Valchirie guidavano gli spiriti dei valorosi caduti attraverso la “selva d’oro” di Glasor e li conducevano fino al cospetto di Odino, nel Walhalla.
Qui, per fortificarsi e rendersi invincibili, i guerrieri si cibavano del verro Sadhrimmnir (maschio di maiale dalla carne illimitata) e si dissetavano con idromele fornito dalla capra Heidrun.
Ogni giorno, sotto la guida delle Valkirie, si esercitavano in durissimi tornei per essere pronti alla lotta finale e senza quartiere che dovevano affrontare quando sarebbe giunta la fine del mondo.
Lo stesso Odino partecipava a quelle tenzoni, in sella a Sleipnir, il suo cavallo e impugnando Gungnir, la sua lancia.
Di numero non ben definito, nove o forse dodici, i nomi di queste Vergini-guerriere immortali, erano sicuramente di carattere guerresco: Gud, Hrund, Hild, ecc…
Più noto, forse, il nome di Brunilde, ma solo perché nata dal genio di R. Wagner che, per la sua splendida opera “Le Valchirie” , compose musica e libretto, ispirandosi alla mitologia del popolo dei Nibelunghi.
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Naturalmente, quell’atto di violenza su una donna fu solo la scintilla scatenante di un fuoco che bruciava sotto la cenere.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo.
Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, detto Bruto, cioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di che pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo, baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo.
Qualche giorno più tardi, nel corso di un banchetto, un certo Lucio Tarquinio Collatino, parente del Re, si vantava dell’onestà di Lucrezia, la bellissima moglie, ed invitava nella sua casa Sesto Tarquinio, il primogenito del Sovrano.
Questi accettò l’invito e provò a sedurre la bella Lucrezia. La donna, però, lo respinse e quegli, in preda alla collera, la stuprò.
Prima di togliersi la vita, la virtuosa Lucrezia informò dell’accaduto marito, amici e parenti e chiese loro di vendicarla.
Fu proprio Giunio Bruto, animato dal suo odio verso la famiglia Tarquinia, ad occuparsi della faccenda. Cavalcando l’onda della grande emozione suscitata da quell’episodio, egli spinse la popolazione alla rivolta.
Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, egli tenne un vibrante discorso funebre che infiammò il popolo: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica. Proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.
Una leggenda racconta che Apollo, il bellissimo Dio del Sole, innamorato di Deifobe, la bella Sibilla da cui era stato respinto, ciò nonostante, le concesse di vivere molto più a lungo del previsto, a patto che lasciasse la Grecia e si stabilisse a Cuma, in zona partenopea.
Qui, un giorno, la Sibilla apparve a Tarquinio il Superbo, ultimo Re di Roma (vedere articolo: “Lo stupro che causò la fine della Monarchia nell’Antica Roma) e gli offrì i suoi nove Libri Sibillini in cui erano riportati oracoli e profezie.
Il Sovrano reputò eccessivo il prezzo richiesto e la Sibilla, allora, ne distrusse tre.
Re Tarquinio, ritenne ancora più alto il prezzo richiesto per quei soli sei Libri e a quel punto, la Sibilla ne distrusse altri tre.
Solo di fronte a tanta determinazione, il Re di Roma si decise ad acquistarli, proprio mentre la Sibilla faceva l’atto di distruggere gli ulteriori tre rimasti.
Il prezzo, però, rimase quello relativo a tutti e nove.
Tarquinio il Superbo ordinò di custodire i tre Testi Sibillini nel Tempio di Giove, a Roma.
Purtroppo, nell’ 83 a.C., essi andarono distrutti in uno dei tanti frequenti incendi che affliggevano la città.
La Sibilla cumana è una delle figure più inquietanti, misteriose ed affascinanti della mitologia greco-romana.
Sibille, erano chiamate le sacerdotesse di Apollo, il bellissimo Dio del Sole, in possesso di poteri divinatori concessi loro dalla Divinità.
Vivevano in grotte oscure o in prossimità di fonti sacre e sul significato del loro nome, c’è la stessa oscurità e lo stesso alone di mistero che circondava la loro figura.
“Vergine Oscura”, secondo alcuni, il significato del termine Sibilla, proprio perché vivevano in luoghi oscuri e misteriosi; inaccessibili. E proprio per questo, e per i loro infallibili responsi, le Sibille erano assai temute e rispettate.
La Sibilla era “posseduta” da potere divino che acquisiva attraverso il respiro di vapori che uscivano da fenditure del terreno nei pressi della grotta in cui viveva (l’Antro della Sibilla) e con libagioni di acqua di Fonte Sacra.
Masticava foglie di lauro, pianta sacra al dio Apollo, atto con cui suggellava la sua unione con la Divinità.
Come ogni altra Sacerdotessa, la Sibilla era la “sposa” del Dio, ma non si trattava di amplesso fisico: la Sibilla, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché “l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.
(il concetto di Vergine-feconda ha sempre affascinato l’uomo)
Non per tutte, però.
La Sibilla cumana, conobbe un ben altro destino: beffardo e crudele.
La leggenda narra che una di queste Sibille giunse a Cuma, in Campania, nei pressi dei Campi Flegrei, dalla città greca di Eritre. Il suo nome era Deifobe.
Era così bella, che Apollo se ne innamorò follemente e le promise, in cambio di sesso, che avrebbe esaudito ogni suo desiderio.
La Sibilla si chinò a raccogliere un pugno di terra e chiese ad Apollo di concederle di vivere tanti anni quanti erano i granelli di terra raccolti.
Apollo acconsentì, ma la ragazza si rifiutò di concederglisi.
La vendetta di Apollo fu terribile: le concesse di vivere, ma le negò la giovinezza: settecento anni.
Con il passar degli anni, Deifobe divenne sempre vecchia e più piccola; quanto una cicala.
A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, rispondeva con voce triste e sconsolata:
“La morte!”
Apollo, infine le concesse di morire.
Morale?… Forse che una vecchiaia troppo lunga è anche troppo triste!
Magia e superstizione hanno condizionato la vita dell’uomo in ogni epoca.
Nell’ antica Roma Imperiale, ai tempi di Claudio e Nerone, un nome faceva tremare la corte: Locusta.
Era una vecchia dall’aspetto orrendo, ma dal potere e prestigio quasi illimitati ed era l’unica persona con libero accesso, notte e giorno, agli appartamenti privati di Nerone, perché era la sua fattucchiera personale.
Nerone, come tutti i suoi contemporanei, era profondamente superstizioso.
Come dargli torto se ancor oggi così tanta gente si fa prosciugare il portafoglio da maghi e fattucchiere?
Nerone non muoveva un dito senza prima consultare quella orrenda creatura la quale era anche assai esperta di veleni.
Fu proprio dei veleni da lei preparati che Nerone si servì per sbaragliare la concorrenza.
(oggi si usano altri mezzi, per fortuna)
Per primo, fece fuori l’imperatore Claudio, suo patrigno, facendogli servire una gustosa pietanza a base di funghi… corretti da Locusta, naturalmente.
Toccò poi al fratellastro Britannico, il quale aveva qualche diritto in più di sedere sul trono dei “figli della lupa”.
La morte del povero ragazzo fu spettacolare e gli storici ne danno risalto nei loro scritti.
Britannico era stato invitato ad un banchetto e stava tracannando vino da una coppa da cui aveva già bevuto un assaggiatore. Il ragazzo chiese dell’acqua per annacquarlo, ignorando che il veleno preparato da Locusta si trovasse proprio là dentro.
Morì, tra spasmi atroci, sotto gli occhi di Nerone e della corte atterrita.
A quella morte, naturalmente, ne seguirono altre, sempre sperimentando nuove pozioni e nuovi veleni che resero Locusta una delle donne più ricche di Roma.
Giunse, però, anche per lei il tempo della resa dei conti, della condanna e della pena.
Morto Nerone, l’imperatore Galba la fece pubblicamente giustiziare e la gente poté trarre un sospiro di sollievo.